lunedì 23 agosto 2010

i tetti arancioni di Malá Strana

Dette un ultimo sguardo alla cattedrale di San Vito, maestosa nelle sue contorte forme gotiche, poi attraversò velocemente la piazza verso l'estremità di Hradčany, in direzione dei giardini. Si appoggiò ad un muretto e trasse un grande sospiro, si voltò solo un secondo ad ammirare ancora il castello, poi lentamente lasciò che i suoi occhi si abbandonassero al grande spettacolo del tramonto di Praga. La Moldava luccicava d'argento sotto di lui, poteva distinguere il grandioso Ponte Carlo che l'attraversava e poco più in là Staré Město, la Città Vecchia, con la sua famosa piazza dell'orologio. Chiuse le palpebre e stette ad ascoltare il battito del proprio cuore per quasi un minuto, concedendosi una pausa per provare a rimettere in moto il cervello, il quale reagì prontamente. Pensò che Praga era esattamente come la ricordava, che era una città strabiliante, e che anche se le aveva sempre preferito Vienna (perché si respirava più aria d'impero, diceva sempre), uno spettacolo di quel genere era capace di rimettere al mondo un morto. Pensò alla prima volta che c'era stato, poi rifletté sul momento presente, e dall'associazione delle due idee nacque una frase che riaffiorò come un ricordo polveroso, una di quelle cose stucchevoli che i genitori dicono spesso ai figli in momenti di difficoltà: «Ricorda che mamma e papà ci saranno sempre per te». «Cretinate» pensò, ed un amaro sorriso ironico gli sporcò l'espressione serena. Strinse la cinghia della sua borsa a tracolla e si voltò, appoggiandosi al muricciolo con la schiena e gettando gli occhi castani verso il cielo. L'accorgersi della smorfia sardonica che lo strano ricordo gli aveva appiccicato in volto lo condusse su un terreno mentale minato, un cimitero di considerazioni che riteneva inutili, e che - naturalmente - adorava fare, rifare e ripercorrere. Dato che, per quanto detestasse ammetterlo, possedeva un animo banalmente romantico, ripensò per prima cosa ai grandi amori passati, li passò in rassegna uno ad uno, ordinando mentalmente in categorie quelli che ancora frequentava, quelli di cui aveva perso completamente le tracce e quelli che ormai si erano addirittura sposati, e che quindi andavano classificati in una maniera del tutto particolare. Una volta estratte tutte le foto dai cassetti dentro la sua testa rimirò quella distesa di riccioli, di occhi e capelli chiari e scuri, di sorrisi smaglianti e labbra socchiuse, si soffermò su un paio di istantanee e poi rimise tutto a posto, con la pignoleria che qualcuno gli aveva sempre rimproverato per scherzo.
Mentre il suo sguardo divorava pigramente i tetti arancioni del Piccolo Quartiere giunse il turno del capitolo più interessante, ma si tolse la preoccupazione più in fretta di quanto lui stesso si fosse aspettato. Stava iniziando ad inventariare anche il folto e problematico archivio degli amici, ma ad un tratto si guardò intorno, e coltosi nel mezzo della capitale boema unicamente in compagnia di se stesso pensò che se era arrivato fin lassù da solo un motivo doveva pur esserci. Ricordò velocemente due o tre figure importanti della sua vita passata, gente che aveva significato molto e gente che aveva avuto l'arrogante pretesa o l'illusione di essere importante per lui, e che ovviamente non aveva mai capito niente. Era un percorso abitudinario dei suoi pensieri, essi lo avevano ripetuto ossessivamente per mesi, anni quasi, come la strada che un operaio percorre tutte le mattine sbadigliando e tutte le sere con le ossa rotte, ogni giorno uguale e senza sorprese, strozzata in una routine mortale. Per mesi, anni quasi, si era considerato tradito da chi lo aveva abbandonato e a cui lui non aveva mai avuto il coraggio di augurare niente di diverso che tutto il meglio della vita, anche quando aveva dovuto subire le pugnalate di confidenze frustranti. Non ho niente per cui rimanere, «io sono niente, allora?». Per mesi, anni quasi, aveva quasi potuto sentire il sapore zuccheroso del sentirsi incredibilmente superiore a chi credeva di esserselo fatto amico, che millantava legami ed affinità costruite a tavolino, salvo perdersi poi in premature crisi di mezza età, cercare di riscriversi un'adolescenza mai vissuta a colpi di stupidaggini e vizietti da liceali brufolosi, rovesciare su di lui e sul mondo circostante quintali di ipocrisia e mostrargli i lati peggiori dell'italiano medio, ordinati come fossero elaboratissime tracklist di dischi compilati da un genio dell'antropologia.
Questo turbine passò in pochi istanti, perché il tempo aveva fatto egregiamente il suo dovere a proposito di tutte le preoccupazioni, ed ora voleva solo godersi un ritorno atteso per anni. Gli serviva Praga per chiudere finalmente un capitolo che solo lui (una volta tanto) per anni aveva potuto comprendere fino in fondo, di cui raramente, controvoglia e mai in modo esauriente aveva raccontato a chi gli stava attorno, e che rappresentava un tassello mancante per gli altri per capire tanti piccoli misteri della sua vita, dal perché non parlasse quasi mai del padre al perché non si fidasse mai completamente di nessuno, dal perché digerisse male gli U2 al perché non avesse mai preso la patente fino a qualche mese prima di quel viaggio. Non aveva mai trovato nessuno all'altezza di venir messo a parte di quel complicato tassello mancante, ed in quel momento si accorse che la cosa gli piaceva, era felice di aver tenuto per sé una storia così fondamentale.
Quando il sole lentamente scomparve si accorse che per la prima volta non aveva più paura di pensare alla fine del viaggio, voleva solo goderne. Si incamminò lentamente verso i vicoli di Malá Strana, Praga era esattamente come la ricordava, anzi meglio.

mercoledì 26 maggio 2010

a quick one

«Siediti» mi disse, poi si sedette di fronte a me. «Ho una cosa da dirti, e non ti piacerà per niente. Ma devo dirtela perché abbiamo costruito il nostro rapporto sulla fiducia reciproca, e sarebbe sbagliato ora da parte mia tacere. Sappi che per me è difficilissimo, e sono consapevole dei rischi che corro a confessarti una cosa di una tale gravità, tuttavia sento di non potermela tenere dentro oltre, o scoppierò.» I suoi occhi si arrossarono, poi proseguì: «Al solo pensarci mi sento così meschina, così stupida. Tu sei sempre strato buono con me, mi hai dato tutto il tuo amore e non mi hai mai chiesto niente in cambio, ed ora io prendo i tuoi sentimenti e li getto al vento, come se non fossero mai contati niente. Ma tu non devi pensare che quel che c'è fra noi non sia speciale: lo è, ma certe persone sono così fragili... e talvolta commettono errori imperdonabili, offendendo chi non lo meriterebbe mai.»
La fissai un poco aspettando che continuasse, ma dato che taceva singhiozzando la incalzai freddo. «Dunque smetti di farla lunga, cosa devi dirmi?»
Quando strinse le palpebre un fiotto di lacrime percorse rapido le guance rosse, poi disse flebilmente: «Non far finta di nulla, hai già capito tutto.»
«Certo che ho capito» risposi «ma vorrei che tu avessi il coraggio di confessarlo.»
Deglutì. 
«Ti ho tradito.» 
Ci fu una lunga pausa, durante la quale lei continuò a guardare per terra, dopodiché alzò gli occhi e mi guardò istupidita: «Perché sorridi? Che motivo ne hai?» disse incredula «Non mi sgridi? Non ti arrabbi nemmeno? Non sei furioso?»
«Non ne avrei motivo» replicai.
«Come sarebbe?» chiese sempre più sconvolta.
«Sapevo sin dall'inizio che l'avresti fatto, prima o poi.»
«Ma come? Significa che non ti sei mai fidato di me?» mi domandò impietrita.
«Neanche per un secondo.» Il mio ghigno si apriva sempre di più.
«Ma allora che significa? Sei felice di sapere che avevi ragione?» mi chiese lei. Era visibilmente indecisa se restare preda del senso di colpa o indossare audacemente la maschera dell'accusatore.
«Felice di sapere che avevo ragione? Questo secondo te dovrebbe farmi sorridere?» Domandai divertito.
«E allora spiegati!» gridò lei «smetti di torturarmi!»
Mi alzai lentamente e raccolsi la giacca che avevo appesa dietro la sedia, la indossai lentamente e mi volsi verso di lei, mi avvicinai al suo volto, scostai una ciocca dei suoi bei capelli dal suo orecchio destro e le sussurrai: «Di questi cinque anni durante i quali siamo stati insieme, non uno è passato senza che io andassi a letto ogni mese con due o tre donne diverse.»
I suoi occhi sgranati mi osservarono andarmene ancora sorridente.

mercoledì 3 marzo 2010

nella mia vita

Che foto meravigliose conservo! Che immagini stupende sono impresse nella mia mente, e quanto tempo è passato da quei volti sorridenti, da quando ero più magro e avevo meno pensieri. Riguardarle tutte sta diventando ogni volta più impegnativo perché ogni volta si aggiunge un anno, e un anno può contenere milioni di immagini. Mano a mano che le ordinatissime cartelle dei mesi si susseguono aumenta il prezzo che pagherei per rivivere uno di quei momenti specialissimi, uno di quegli attimi incredibilmente leggeri e soavi (o così sembrano). Darei sempre di più dopo ogni foto che vedo, dopo ogni ricciolo e dopo ogni scottatura, chitarra e scollatura, albero innevato, parco, salotto, barca e panchina, persino dopo ogni foto di Firenze. 
Ci sono persone e luoghi che non scorderò mai, anche se qualcosa è cambiato. Qualcuno per sempre, e non in meglio, eppure di quanto mi priverei per tornare indietro ed assaporare ancora il colore di periodi della mia vita così complicatamente chiaroscurali da sembrarmi arte. Si scavalcano e si accalcano uno sull'altro, gli affreschi, si spingono e si mescolano frettolosi, come se dovessero fare a gara per chi dovrà aggiudicarsi il primo premio nella voglia di nostalgia che ho stanotte. Capitano alcune foto che mi rendono fiero di essere vivo, che mi strappano espressioni acrobatiche da tanto si tengono in equilibrio tra il riso e la commozione. Speciali: queste persone sono state tutte speciali.
Eppure ad un certo punto della serie di immagini e bozzetti di vita arrivi tu. Ed è allora che questi ricordi perdono il loro senso, o più semplicemente, perde di senso la voglia di raggiungerli e riabbracciarli ad ogni costo. Ogni cosa si spoglia del proprio significato per vestirne uno nuovo, se ci sei tu.



There are places I remember
All my life, though some have changed
Some forever not for better
Some have gone and some remain
All these places had their moments
With lovers and friends
I still can recall
Some are dead and some are living
In my life I've loved them all


But of all these friends and lovers
there is no one compares with you
And these memories lose their meaning
When I think of love as something new
Though I know I'll never lose affection
For people and things that went before
I know I'll often stop and think about them
In my life I love you more

giovedì 11 febbraio 2010

money can't buy me love

Noi siamo contro il consumismo sfrenato delle festività tipiche del capitalismo più barbaro, tipo San Valentino. Noi rifuggiamo un concetto di amore che si misuri sulla base del denaro e della mera materialità, non è vero tesoro?

Tesoro?

Dove sei?

lunedì 8 febbraio 2010

you belong with me

Sogno il giorno in cui ti sveglierai e capirai
Che tutto ciò che stai cercando è sempre stato qua

Se solo potessi vedere che sono l'unica che ti comprende
Sono sempre stata qui, allora perché non capisci?
Il tuo posto è insieme a me


Ascolto questa canzoncina e mi dico che non capirò mai fino in fondo se quello che provo nei confronti del fanciullesco romanticismo degli americani sia stizza o invidia; sono un popolo rimasto talmente ancorato alle proprie radici ottocentesche da averle sublimate, trasformate in un vero e proprio stile di vita, una gigantesca lente rosa attraverso la quale riescono a vedere il mondo anche nei momenti peggiori. Ma non sta qui il punto. Il punto è che questa lente è per loro il filtro della realtà quotidiana, la quale si trasforma in un gigantesco serbatoio di struggenti love stories a lieto fine, buoni sentimenti a profusione e commoventi racconti di anatroccoli che diventano cigni sul palcoscenico di una high school o di un college. Di certo hanno imparato bene il mestiere e sanno su cosa fare perno per colpire l'attenzione della gente, per guadagnare il più possibile dalle facili emozioni di storie che parlano di teenager e primi baci, ma non basta. Non sono del tutto convinto che il dio denaro dica l'ultima parola anche su questo: quella di fondo rimane una questione culturale. E allora è probabilmente per questo che noi cupi e riflessivi (ma soprattutto snob) europei cediamo spesso alla loro naïveté mascherata da stucchevole banalità. Forse ogni tanto anche a noi piace vedere il mondo più rosa.

lunedì 18 gennaio 2010

Antigone

Lui disse che si sentiva una sensazione dentro, io gli risposi: «giusto», poi spinsi il jack nell'amplificatore finché sentii il familiare clack, alzai il volume ed urlai forte fino a tre. Non fu come le altre volte perché stavo pensando ad altro, stavo cercando dentro di me una risposta nel momento peggiore per farlo, col sudore che gocciolava sempre più fastidioso fin dentro il colletto della camicia e le luci colorate che mi accecavano; stavo cercando qualcosa che non avrei trovato neanche in un momento di lucida calma. La mia risposta sarebbe nata infelice perché orfana di una domanda: ogni risposta meriterebbe di avere una domanda, ma la mia -  poveretta - non la aveva, e cosa peggiore continuava a nascondersi.
Quando tutto finì vidi davanti a me solo il microfono: ciò che stava dietro rimase acido e indistinguibile finché non misi a fuoco il pubblico che urlava ed applaudiva, come posseduto dall'odore di birra e dai decibel che andavano smarrendosi lungo le pareti del grande capannone. D'un tratto mi guardai attorno ed in quel sudore, nei decibel e nelle urla trovai la risposta, anche se ancora non riuscivo a capire quale fosse la questione. Forse la domanda nemmeno la possedevo io, forse stava in qualche libro di storia o in una tragedia greca, forse aveva la forma di una resa dei conti del passato col presente, della ricerca di una coerenza e di una via unica e limpida, la forma di una legge sulla cui natura doversi interrogare. Avrei voluto essere come Antigone, avrei voluto preferire la certezza di tutto (lei era certa delle proprie ragioni quanto della propria sorte) piuttosto che l'ebbrezza dolente di una ansiosa ricerca. Forse allora non seppi neanche se la risposta che avevo trovato quella volta fosse stata quella giusta.


«Raggio del sole,
tu che sei la luce più bella
fra quante mai sfolgorarono
su Tebe setteporte,
finalmente hai brillato,
occhio del giorno dorato,
levandoti sulle correnti dircèe»

martedì 12 gennaio 2010

riding on city buses for a hobby is sad

Non era una bella giornata. Era di nuovo il capolinea della linea 2 in un'umida ed appiccicaticcia serata invernale, il prossimo giro magari avrebbe potuto farlo sul 5 o sul 13: non ci saliva già da diversi giorni e d'altronde non aveva niente da fare. Non aveva mai niente da fare. Quella sera però mentre scendeva i loro sguardi si incrociarono per sbaglio, lei sorrise e lui si sentì felice, per un secondo. Lo sportello del bus si chiuse pesantemente dietro di lui, i suoi occhi seguirono veloci la gonna di lei che se ne andava. «Ti amo» le disse, ma le sue labbra rimasero incollate e non uscì neanche una nuvoletta di fumo.
Infine scelse il numero 13, non era una bella giornata.

P.S.: grazie Stuart Murdoch

domenica 3 gennaio 2010

l'ora di filosofia

[da Behind Blue Prat del 17.11.2009]

Si alza e si volta, si avvicina lentamente al letto e sorride al micio, lo spalma sul plaid e gli regala un paio di carezze ben somministrate, ne ride. Poi torna al computer e pensa che, sì, potrebbe anche scrivere qualcosa dopo tanto tempo, anche se gli manca l’impulso (ma d’altronde non è forse questa l’essenza di un esperimento?). 
L’ora di filosofia a scuola quel giorno era particolarmente soffocante: fuori era già maggio e il prof continuava ad urlare qualcosa su Hegel che gran parte della classe aveva già rinunciato a capire da un pezzo. Il prof non urlava per rabbia, il prof urlava e basta, era la sua appassionata maniera di fare lezione; non era così irritante come può sembrare. La lezione gli importava poco, ma faceva finta di farsela importare, tanto avrà pur dovuto starci a fare qualcosa, in classe. Il protagonista, dico, non il prof. Lui, il protagonista, faceva pendolare il suo sguardo in maniera abbastanza regolare dalle trifore che imprigionavano la primavera al di fuori del palazzo fino ai capelli castano scuri di lei, un po’ trastullandosi, un po’ giocando a speculare sulla fantascienza che il suo cervello elaborava di minuto in minuto, e che lui caparbiamente si ostinava a vedere come il proprio futuro immediato. Naturalmente, una volta finito Hegel e tutti i suoi guai con la propria coscienza a proposito della Rivoluzione Francese, non si sarebbe verificata nessuna delle scene idilliache che gli rimbalzavano gaudenti dal cervelletto alla zona temporale, ma lui era riuscito perfettamente nella non facile impresa di sottostimare ampiamente questa considerazione. Quella giornata, invero, terminò tale e quale a tante altre, non che questo fosse un male, si capisce, ma non era e non fu quello il punto. Il punto è, e lo scopre voltandosi di nuovo verso il micio, attirato irresistibilmente dal manto argenteo, che né quella volta, né quelle altre tante volte, si ricordò di aver mai avuto nemmeno il vago sentore di quali strade la sua vita avrebbe preso nel futuro lontano e neppure in quello prossimo. Questo lo fa ridere un po’, e un po’ lo fa anche sentire superiore a tutti quelli – ce ne sono tanti, e anche all’epoca ce n’erano tanti – che sprecano metà del loro tempo utile a progettare e a pensare a cosa diventeranno da grandi, o anche solo tra qualche anno.
E un po’ invece lo rende triste, pensare di essere come una foglia secca che galleggia su una pigra pozzanghera, senza la minima idea di che cosa fare una volta che l’acqua si sia asciugata.

we are golden

Inarcò non troppo vistosamente il sopracciglio destro, poi chiese pacatamente: «Invidioso del golden boy, io? Giusto un poco, forse, ma soltanto per alcuni motivi contingenti e niente affatto per ragioni strutturali, se capisci quel che intendo. D'altronde di cosa dovrei essere invidioso? Lui sarà pure più bello, ma io sono molto più intelligente, ho avuto ed ho una vita sociale più interessante della sua, non fumo e non mi sono mai drogato. Sono di certo migliore di lui nell'esercizio delle arti liberali (le quali sono di gran lunga il miglior cibo dell'anima) e so comporre: lui non ci riuscirebbe neanche con Paul Simon che gli suggerisce da dietro le spalle. Non sono opportunista, gretto ed egoista quanto lui, dico meno bugie e faccio a meno di scuse; ho persino imparato a non cercare altri colpevoli all'infuori di me medesimo, per quanto riguardi le sventure della vita. Sono umorale ed indaffarato come lo siamo tutti, ma questo non mi impedisce l'adempimento dei miei doveri, specie quelli morali.»
«È astio quello che provi?» gli domandai. Mi rispose di no. «Solo dispiacere, poiché gli voglio bene».

sabato 2 gennaio 2010

primo

Credo di non avere foto del giorno del mio compleanno da anni. Il primo giorno di questi anni dieci - il mio primo compleanno di questo nuovo decennio - ne ho una: rappresenta l'Arno di notte, in piena.